Il
prete si guardò la testa riflessa nello specchio opaco e incrinato.
Storse la bocca con un «Mmmm...» di disapprovazione. Il vecchio
orologio da parete sembrava spiarlo dall’umidità colante
dei muri, silenzioso, la lancetta spezzata dei secondi che feriva impercettibilmente
un vuoto sempre uguale.
La mano rugosa scivolò virile sulla sommità del capo, incontrando
una corta, ispida peluria. Poi aprì un cassetto dopo l’altro,
frugando nelle diverse assenze di ognuno, finché tirò fuori
una scatoletta di metallo. Velocemente, con gli occhi all’orologio,
il prete rovesciò il contenuto invisibile della scatola sul cranio
e sparse i batteri sulla testa, con meticolosità, passando le dita
sulle tempie, dietro le orecchie, sulla nuca.
I
piccoli organismi mutati avevano fatto il loro lavoro, ed erano già
morti, quando il prete, la stola sulle spalle, passò nella cappella
adiacente, calvo e lucido come alabastro. Gli unici tre video accesi splendevano
intensamente fra gli altri, tre sfarfallii, tre occhi spalancati in mezzo
a una platea di ciechi. Poteva sembrare normale per una funzione del mattino,
infrasettimanale.
Le
tre donne erano ora in piedi e, con il tipico sfalsamento-video, guardavano
davanti a loro, sebbene gli schermi fossero in posizione periferica e
non in direzione dell’altare.
«Il Signore sia con voi...»
«...e con il tuo spirito», risposero a tempo le voci, ronzando.
Le immagini traballavano leggermente alle sonorità più basse.
Il prete continuò la celebrazione come faceva sempre: le stesse
pause, le stesse parole, le stesse intonazioni. Solo in una lettura, e
durante l’omelia, alterò di poco il volume della sua voce:
una lieve, quasi inconsistente modifica, che però gli piacque moltissimo.
A
messa finita si sfiorò compiaciuto la testa col palmo della mano,
mentre un raggio di sole penetrava violentemente dalla feritoia-finestra.
Quasi uno sguardo. Lo sguardo del Signore. Sorrise soddisfatto,
sentendosi ora più che mai vicino a Dio.
Poi si girò verso l’altare e prese il telecomando. Lentamente,
uno schermo alla volta, mise in pausa e riavvolse i tre nastri. Uno minacciò
di incepparsi e rompersi come, di messa in messa, avevano fatto gli altri,
gli occhi spenti dell’assemblea; poi si sbloccò, tornando
indietro con un fruscio metallico, mentre la donna con il rosario nelle
mani si alzava e sedeva nevroticamente.
Il
raggio di sole si affievolì improvvisamente, e l’oscurità
ridiscese di colpo nel piccolo, umido luogo consacrato. Il prete indossò
la mascherà, corse alla porta e la spalancò: attraverso
la fuliggine perenne dei pozzi che bruciavano riuscì a scorgere
la sagoma velocissima dell’aereo che sfrecciava via, spaccando l’orizzonte
con uno schianto, e si lasciava alle spalle il lampo fioco della testata
appena sganciata.
Con malinconia, con disappunto, si accorse che la fonte del bagliore,
di quel “raggio di sole”, fino a pochi minuti prima era stato
il piccolo insediamento che lo riforniva di provviste e colture batteriche
multiuso. Laggiù, una volta, viveva anche un ometto che si intendeva
di video e di nastri.
Rientrò dentro. Si sfilò la maschera cercando di non posare
gli occhi sul retro degli schermi: da dietro erano ancora più tristi.
Il pallido tremolio della città che bruciava lontano fece vibrare
per un attimo le ombre irregolari delle pareti crepate. Poi più
nulla.
Il prete si inginocchiò verso l’altare e ringraziò
il Signore per la sua chiesa, per i fedeli che ancora gli concedeva. Allora
sentì chiaramente, al centro del petto, il calore della prossima
luce, dell’ultimo raggio di sole, quando si sarebbe finalmente perso
nello sguardo abbacinante di Dio.
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