Unica fine, in più parti, di un presunto untore

(Capitolo 10)


Wilhelm il frisone, l’uomo che vendeva i pianeti con i suoi pappagallini, lasciava a ogni passo una scia di sangue sopra la neve. Il naso e la bocca, nonché una spaccatura piuttosto profonda del sopracciglio, gli arrossavano il busto, e la chiazza vermiglia gli aveva intriso persino i pantaloni — tutta la coscia destra fin quasi al ginocchio. Le gocce scure, nerastre, affondavano in silenzio dentro il terreno imbiancato, e poi il girovago, il dispensatore di profezie, trascinava la gamba spezzata e, zoppicando, impastava il sangue col fango e il nevischio.
Era l’alba, oppure il tramonto — il frisone non lo ricordava. La luce cadeva trasversalmente sul mondo. Ed era così debole, fioca, che i suoni sembravano prendere forma e colore, invadere le prospettive ed i corpi — fino a sostituirli, semplicemente. L’affanno raschiato del grosso uomo ferito, fuggiasco; lo scalpiccio strascicato — un passo a fondo, pesante, e l’altro piede tirato via, con fatica —; il brusio veemente, molteplice, degli inseguitori, sempre più nitido, sempre più vicino.

Stringendo i denti, senza quasi provare più quella fitta assurda al centro esatto della testa, Wilhelm superò un dosso trovando appiglio nei tronchi di alberi esigui. Si girò, fumante nel freddo del paesaggio piatto ed opaco, verso gli echi delle voci alle sue spalle. Dopo guardò avanti a sé, e indovinò, alla fine d’una sorta di avvallamento, la striscia cupa della strada che da Lille Havn portava verso l’interno. Oltre la strada tremavano come fiammelle, nel grigio, le poche luci d’un altro villaggio.
Respirò a fondo. Sorrise. Si passò la manica impiastricciata sopra la fronte, a detergersi sangue e sudore. A quel punto la gamba spezzata gli venne meno: perse l’equilibrio e rotolò giù nell’avvallamento, per una trentina di metri, disarticolato come un burattino rotto.
Perse i sensi, ma solo per pochi istanti. Poi il dolore lancinante gli diede una scossa e lo risuscitò, disteso supino a guardare un cielo sbiadito in cui le stelle apparivano, o stavano lì lì per disciogliersi, per lasciare il posto a una coltre azzurrognola. Dio, pensò allora. Dio mio… E appellandosi a ogni risorsa per quell’ultimo, colossale sforzo — scivolare al di là della strada, fino alla prossima casa —, tentò di ricordare quali preghiere avesse mai appreso. Se c’era stato un momento, in quella sua vita di sfaccendato e ambulante, nel quale aveva avuto una religione — un Padre Onnipotente da venerare e temere, o magari anche amare, intanto che portava in giro e vendeva il Destino.
I figli amano i padri, si disse per farsi coraggio. E così i padri li amano a loro volta, non li abbandonano…
Un fruscio. Improvvisamente gli sembrò d’aver udito un fruscio che proveniva da un qualche punto imprecisato appena al di là della strada. Ma forse era stato lo stesso suo strascicare in mezzo alla neve, la gamba morta che seguiva il tronco, appesa e scomposta come un grosso pesce inanimato sul ponte d’una paranza, fatto strusciare dai marinai tra il fradiciume sanguinolento degli altri pesci che ancora annaspano e schiaffeggiano l’aria.
No. Quella metafora, quella visione da pescatori (del tutto nuova per lui, per uno abituato alla terra sotto i propri piedi, anche se solito vendere sogni) era l’ennesimo inganno, un altro miraggio. Il fruscio si ripeté di nuovo, oltre la trama ruvida della strada, nitidissimo e estraneo dentro il chiarore dell’alba — era l’alba, sì, e le stelle non comparivano, si dissolvevano invece, sopra di lui.
Wilhelm si irrigidì. Si paralizzò in quell’universo di acqua gelida, addensata e liquida insieme, e scrutò avanti a sé, nella foschia del mattino ancora a venire. C’era una sagoma adesso, un profilo nerastro, beccuto — come un corvo che fosse spuntato dietro il ciglione che delimitava la strada. Ma non muoveva il capo a scatti rapidi, come usano fare gli uccelli. Ora, senza fretta, mostrava il profilo aguzzo — sembrava intento ad un ramo, a sbeccuzzare una linea diritta e altrettanto scura —; ora si rigirava di fronte e, forse, fissava il frisone. In quei momenti mostrava una testa squadrata, che si allargava sui lati, alle tempie. Ricordava quasi un barbagianni, od un gufo.
Il cuore aveva per un attimo rallentato. Poi, però, una nuova incertezza s’era mescolata nel battito dentro al petto di Wilhelm. L’eventualità che si sbagliasse, che in quel gioco di ombre e di luci morenti e nascenti non fossero uccelli a posarsi lungo le strade, ma maligne fantasime, incubi cattivi e violenti. E che il delirio e il dolore alterassero distanze e figure, occultando le insidie, gli agguati.
Allargò le dita che, inconsapevole, serrava a pugno. Le affondò in quella farina di ghiaccio e di terra finché non strinse una manciata di freddo pastoso, compatto. Si inclinò leggermente su un unico fianco e, facendo forza solo con la spalla, scagliò il proiettile addosso all’ombra del corvo.
Un tonfo sordo, la minuscola esplosione della neve sulla strana testa di gufo. Nessuno stridio. Neanche un battito d’ali, un accenno di volo.

Il Caporale imprecò contro quell’alba torbida. Il suo turno era quasi alla fine, tutto era andato liscio, tranquillo, davanti alla sua porzione di ghiaccio e di strada. Tutto fino a pochi secondi prima — ma erano secondi o minuti? Oppure ore, addirittura, ché quando si monta la guardia, col moschetto a tracolla, la fissità ti annichilisce e ti ottunde, e ogni cosa diventa astratta e incorporea come l’idea del Tempo?
Tempo. Quanto tempo aveva impiegato quell’uomo, ruzzolando e strisciando, ad arrancare fin quasi alla sua postazione? Era un po’ che il militare l’osservava, da quando quell’ombra scombinata e zoppa era comparsa sul filo di neve della salita, fra gli alberi radi. Il passo del fuggitivo era sciancato e debole, e il vapore emesso in rapidi sbuffi dalla sua bocca indicava lo sfinimento. Il Caporale, allora, aveva stappato con lentezza il cappuccio della fiaschetta di polvere e, con gesti altrettanto flemmatici e misurati, mentre vegliava sulla figura lontana, aveva iniziato a caricare il moschetto. Poi l’altro era rovinato giù nell’avvallamento, e alla fine della caduta era rimasto immobile, come fosse morto.
Ma non era morto. Anzi: va’ a capire cosa gli doveva esser passato per la mente ché, da disteso, aveva immerso un braccio nel suolo e dopo gli aveva tirato contro una palla di neve!
Il Caporale finì di scuotere il ghiaccio dal tricorno, battendo un’ultima volta il cappello sul fianco del suo cappotto. E qui converrebbe parlare di immaginazione, visto che il soldato ed il suo fucile avrebbero continuato ad essere un uccello bislacco e il suo ramo. E che, in aggiunta, l’infezione e l’acuta dolenza della frattura si sarebbero sbizzarrite a mettere in scena per il frisone ombre cinesi di gufocorvi, o di corvogufi, e cioè dell’unico volatile il quale — pare — sia in grado di svitarsi il becco e la sua impalcatura, scrollarne via la neve, e riavvitarselo di nuovo in capo. Tutto questo, almeno finché il corvogufo non avesse intimato l’alt — quando la luce rivelava già molti dettagli e, da dietro il ciglione, i grossi bottoni ottonati della divisa riflettevano sfocatamente i primi raggi dell’alba.

E dunque: « Alt! », gridò l’uccellaccio arruolatosi quel mattino stesso. « Altolà! Non un movimento di più! », gracchiò insistente, forse con frasi che aveva appena imparato.
Wilhelm strisciò ancora in avanti, per circa un paio di metri, dolendosi per il fatto che i pappagallini delle Indie Occidentali non gli avessero mai ripetuto neanche mezza parola. Dopo si fermò: stavolta per sempre, ché gli mancava la forza per andare oltre. E tuttavia era arrivato fin dove voleva, fino al punto dal quale riusciva perfettamente a vedere gli occhi dell’altro sotto quel becco-cappello.
Morire così va bene, pensò quindi il frisone con un distacco febbricitante, quasi che la sua mente osservasse quegli attimi fuori dal corpo. È più giusto, quando si muore, incontrare l’ultimo sguardo che ti è toccato in sorte.
E poi formulò nuovi accenni di frasi, più che altro allusioni sconnesse e senza struttura, su come sapesse che la Morte è cieca: una cecità vischiosa e infinita. Pensò questo perché ormai il Buio, dentro di lui, aveva scalzato via tutto, disperazione compresa. Anche quel rimasuglio abbozzato, quello scarabocchio del Padre Onnipotente che non era mai stato in grado di scrivere sui bigliettini del Fato.

Così, la dura Ragion di Stato, la stessa che aveva isolato Lille Havn e concepito l’Ordinanza di Sanità, stava per recidere l’ennesima vita. Ma stavolta si trattava d’una morte inutile, giacché chi sarebbe stato eliminato non era un appestatore; e di nessuno dei tipi del contagio: né di quello polmonare, né di quell’altro — forse ben più temuto — le cui vittime faceva straparlare di Dio e di Fede, e di vascelli distanti, all’àncora all’orizzonte, con a bordo Cristo.
E tuttavia, nonostante colui che si faceva avanti, che violava i limiti stabiliti, fosse né più né meno ridotto a un verme strisciante, semisepolto in mezzo alla neve, questa volta il soldato avrebbe sparato.
Potremmo lambiccarci in eterno a trovare un motivo, cristallizzare questi attimi in un Sempre geometrico, e scinderlo e sezionarlo fino a ottenere migliaia, milioni di microscopici Adesso. E poi riconsiderare ogni frammento, ogni tessera, ogni diramazione vetrosa, ogni simmetria di questo mosaico invernale di fiocchi di ghiaccio e di sangue. Inutilmente.
Il Caporale griderà ancora e comunque « Altolà! ». Magari vi aggiungerà un « Fermo o sparo! » stentoreo, ricostruito sopra ricordi altrui. Dopo, senza accorgersi di deglutire a fatica un boccone d’aria, chiuderà l’occhio, incasserà il calcio levigato dello schioppo fra spalla e clavicola e, con le dita quasi paralizzate dal gelo, farà forza con l’indice dolorante, tirando il grilletto. Poi verrà quel rumore assordante all’interno dei timpani. E il fumo, la fiammata che sfiora lo zigomo destro del fuciliere, l’odore aspro, bruciato.

Sia detto: soltanto in un’altra occasione gli sarà data la possibilità di scegliere. Se far fuoco o meno. Accadrà più avanti nel tempo, e a noi potrebbe anche non importare — un’omissione perdonabile, questa — se non fosse che anni prima, allo stesso Caporale — ma allora più giovane, un « Verginello » — una puttana per soldataglie, presso un confine incerto del mondo, non avesse voluto leggere la linea del cuore, prima di passargli il piacere e la febbre infettiva del tifo. E se non fosse che la prostituta-sibilla avesse strani responsi da vaticinare: di generosità, di amore che costa un occhio della testa. E di due donne, due donne insieme…
Così, in quest’altra occasione a venire, l’uomo d’armi non sparerà — e magari sarà stato anche merito di Wilhelm, il frisone. Il Caporale attenderà fino a che le due donne da Lille Havn — la giovane vedova e la piccola Anja, attaccata alle vesti materne — non oltrepasseranno il solco scuro della strada; attenderà fino a che il colpo di nerbo del Sergente — « Fuoco, perdio! Fuoco, Caporale! » — non gli brucerà l’occhio e la guancia, svirgolando dal bavero al sopracciglio.
Allora, senza un lamento, con la grazia d’un angelo accecato, farà cenno al suo aguzzino d’allontanarsi, roteando il moschetto nell’aria come uno scettro celeste. E poi avvolgerà le due figurine smagrite — quella piccola e quella più alta — sotto il mantello della sua divisa, e tutti e tre svaniranno insieme, per sempre, verso la baia del morbo.
Ma questo è un altro racconto, fatti che non ci riguardano…

Torniamo al frisone. Al suo ultimo tonfo a faccia in giù nella neve.
Ora, mentre immagina che quel sudore freddo sia il primo sentire la Fine, mentre ha la certezza che i plotoni d’esecuzione di tutta la Terra siano composti da fucilieri con occhi spauriti, larghissimi — occhi che nemmeno i condannati a morte… —, ora si accorge che in un mondo dove ci si ricorda solo dei furbi, o dei pazzi, lui ha sempre creduto di appartenere ai primi. E invece è stato soltanto un pazzo. Soltanto un povero pazzo impostore, con un paio di pappagallini, che si figurava davvero di sostituirsi alla Sorte scrivendo futuri buoni, buoni per tutti, sopra striscioline di carta. Buoni per tutti, ma non per se stesso.
In questo modo, con questi pensieri, ha termine il viaggio d’un giramondo senz’altre colpe che quella d’aver donato illusioni e speranze in cambio di pochi spiccioli. È una maniera bizzarra di andarsene — come è bizzarro scrivere « andarsene » quando, al contrario, chi muore resta, si sedimenta e indurisce nel ghiaccio.


Le forme grigiastre degli inseguitori appaiono un attimo sull’orlo distante della salita. Controllano gli ultimi rantoli del presunto untore. Dopo, in silenzio, si voltano e fanno ritorno, nell’alba sporca ed opaca, alla baia della quarantena.

 

 

Torna ai Brani del romanzo

Torna a Del Morbo — Una cronaca del 1770