Ieri ho fatto un sogno.
Fin qui nulla di strano. Sogno tutte le notti — almeno credo.
Il fatto è che non ricordo mai i dettagli con così tanta precisione. È come se l’icona di questa notte — perché di un’icona si tratta, distante, sfinita, come soltanto nei sogni restano appese le immagini — l’avessi dipinta io stesso.
Con questo, sì, arrivo a delle conclusioni: nella mia testa (non dico né « cervello » né « inconscio », lascio ad altri il gusto di imporre etichette) risuona lo sciabordio di polle multicolori — gialle, verdi, rosso-sangue, blu-notte. Sono vasche, per quanto ne so, scavate direttamente nell’argilla cupa che sottostà all’intrico dei miei pensieri. Sopra di esse lampeggiano, argentee, le lingue di luce, le scariche fra sinapsi e sinapsi. Potrei chiamarla Penelope, la mia mente, ché lassù, nella volta remota sopra alle pozze piene di colori, fa e disfa e rifà la sua ragnatela, incessantemente.
Ma non è questo che conta.
I colori, dicevo. Ogni notte — e ogni volta che il sonno mi prende, che mi rapisce dal mondo che dicono sia quello « vero » — sono allora io che immergo dita dolorose, sensibili e arcuate come setole di pennelli costosi, dentro le vasche. Afferro pigmenti che scivolano sulle mie braccia, che stendono un velo ora opaco, ora lucido, sul reticolo impercettibile delle linee delle mie mani. Le pieghe e le rughe della mia pelle — le vedo — s’impreziosiscono di terre di Siena, di ori e turchesi; lasciano scorrere tinte sopra altre tinte, le mischiano e le confondono in nuovi toni; sperimentano gradazioni diverse, mai viste, e sono felici come donne anziane che hanno scoperto un maquillage sovrumano.
Poi, ecco: con gesti sicuri, anche minuziosi, affronto una superficie bianca, un piano vergine che esiste — o meglio, affiora dal nulla, sospeso sopra alle pozze — da sempre, ma di cui mi accorgo soltanto adesso. Traccio l’abbozzo del mio « dipinto » (in quale altro modo potrei chiamarlo?): curve rapide, sinuosità e linee scabre che, a breve, definirò di azzurro e di ocra. Solitamente so sempre qual è il soggetto della composizione, ma — dev’essere così che funziona — non me lo rivelo mai sùbito. Aspetto che le forme si facciano strada da sé, che trovino spazio, e poi vita, soltanto alla fine. Solo quando il mio polpastrello umido di colore ha lasciato l’ultimo segno. Ed io mi ritraggo, indietreggio con terrore sacro, davanti a figure che riconosco, che rinnegavo, sepolte all’interno di me.

L’altra notte, quindi, io ho dipinto di nuovo. Di quinta, una cornice rocciosa, scura: una sagoma nera. Oltre quella, come se stessi guardando da dentro una grotta (la caverna platonica?, oppure un frammento strappato d’una parete domestica?) su di uno strapiombo, è apparsa una donna appoggiata ad un grande sasso, come un sostegno messo lì per lei, levigatamente tranquillo. Sullo sfondo una distesa marina che, in qualche punto — l’orizzonte era perso, debolmente confuso — si mescolava e fondeva col cielo in una passata omogenea, ma nient’affatto piatta, di note notturne d’azzurro.
La donna era nuda — ma di una nudità neutra, statuaria, per nulla carnale e eccitante. L’immobilità, addossata al sasso-sostegno, la congelava in un tempo assoluto. E, a confermare quell’immensa staticità, dalla fronte spaziosa fin quasi all’altezza dell’ombelico — cioè del filo fioco dell’orizzonte — era ricoperta del medesimo azzurro notturno del mare-cielo dietro di lei. Come se lo scenario, le diverse profondità dei livelli raffigurati, finissero per accavallarsi, per sovrapporsi in una sorta di gioco di veli a due dimensioni, annullandosi. E a niente valeva il fatto che, dall’ombelico al pube, fino alle cosce — o dalla piega del gomito fino alla mano dell’unico braccio visibile —, ricominciasse la pelle, sfumando rapidamente dall’azzurro al roseo.
In quel momento credo di aver pensato — sempre che nei sogni si possa pensare — di essere finalmente vicino: che fosse quella, proprio e soltanto quella, l’idea del Tempo che io stavo inseguendo: la fissità dei miti, forse, che è impastata della stessa materia che compone le nostre divagazioni oniriche. E, come il Mito, ho compreso che avesse bisogno d’un dettaglio in più, di un’addizione che le donasse quella sottile, spesso inafferrabile, mutabilità potenziale che è propria degli archetipi, delle leggende. Narrate sempre allo stesso modo e sempre con una nuova, minuscola variante.
La colomba. L’ho disegnata io, l’ho riposta io stesso nell’incavo accogliente fra il collo e la spalla? Oppure è volata da chissà dove (dalla linea nascosta dell’orizzonte?, dalla caverna oscura?), e si è accomodata lì, ad accarezzare piumosamente la guancia azzurra della visione?

Racconterò un mito, mi sono detto al risveglio, non appena ho riaperto gli occhi. Un mito con una donna, e una scogliera a picco su una marina subito dopo il tramonto, o poco prima dell’alba. Su quell’effigie femminile, su quella figura mitica che mi guarderà priva di pupille, ma di cui non ricorderò il nome, si poserà, lieve, una colomba. Sarà tutto un artificio di forme che si appoggiano ad altre forme: la roccia nera al pannello azzurro del fondo; l’immagine della donna al sasso e all’orizzonte; il mare e il cielo alla scultura vivente della donna… E la colomba su tutto. Raccolta nella piccola fossa della clavicola; oppure distesa su un fianco, sopra una tela su cui è dipinta, con due colori, una donna-statua.
In realtà non sta a me decidere dove debba posarsi una colomba. Gli occhi, per vedere, non devono sforzarsi più di tanto. L’Impossibile, che lo si sogni o meno, è sempre davanti a noi. E ci fissa. Magari anche dalla superficie, apparentemente piatta, di un quadro.

 

 

NOTA AL TESTO:
Questi appunti datati 1932, scovati fra l’enorme mole di carte e fotografie nello studio di Bruxelles di René Magritte, sono probabilmente alla base della creazione dell’opera intitolata La magie noire (o, in fiammingo, Zwarte magie). Probabilmente, si è detto, poiché alcuni esperti e la stessa M.me Georgette, moglie e modella dell’artista, ne hanno messo in dubbio l’autenticità. Che tale scritto possa essere falso lo dimostrerebbe che, fra le altre cose, nessun accenno vi appare a proposito del futuro titolo dell’opera — obiezione assai debole, a nostro avviso (ben più significativa sarebbe invece la mancanza d’ironia del testo).
Al di là di qualsiasi disputa vale comunque la pena di evidenziare l’accurato racconto della composizione — che il surrealista Magritte rielaborò più volte nel corso della sua carriera —, e l’accenno alla variante della colomba, non sempre presente nelle diverse versioni de La magie noire.

 

 

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