Questa
è la leggenda.
Erano notti incandescenti per la capitale del mondo, cominciate così, con la bocca del Drago che aveva ingoiato la città. Gli dèi stessi temevano d’affacciarsi dal cielo divaricato, d’emergere dall’abisso freddo: forse rispettavano il Drago, ne erano i servi — chissà. Dicono che ben presto la vampa avvolse dentro il suo morso perfino le menti — allucinazione, angoscia, dolore. Allora gli uomini, ecco, presero ad adorare il Drago; quelli che non l’avevano maledetto, che credevano in lui — come nei loro cuori —, pregarono ché si spegnesse il fuoco del suo rancore. Tuttavia il Drago doveva ancora deglutire la testa del mondo. Così vennero i giorni in cui disseccò la terra e la vita — come era giusto, da animale ferito. Adesso impalcature umane vagavano in cerca di acqua; la speranza moriva strangolata; il sangue era polvere color fango. Poi
il Drago soffiò venti afosi di peste — aveva cavato dalle
sue viscere tutto il male incomprensibile subìto in passato:
ora lo rivomitava sul Male e i suoi schiavi assetati. Finché non giudicò che fosse abbastanza. Fu l’istante del pentimento, quando il Drago provò pena per i peccati dei propri figli. E pianse. Pianse lungamente. Ché alla fine anche lui era diventato un mostro — identico a quelli. Dicono che una pioggia di dodici giorni sulla capitale del mondo lavò per sempre la colpa.
E
dunque.
|